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Approccio sistemico relazionale

Psicologo a Cagliari

Il modello sistemico nasce da un’esigenza di cambiamento in diversi ambiti scientifici, prima che nell’ambito psicologico, tra la fine degli anni Quaranta e gli inizi degli anni Cinquanta. Infatti la teoria dei sistemi fu elaborata da Ludwig von Bertalanffy, in risposta alla crisi del modello meccanicistico che parlava di una rigida causalità lineare, ossia di una relazione causa-effetto. Tale modello si basava sull’analisi dei singoli elementi, perdendo di vista il tutto nella sua complessità. In quel periodo invece gli studi evidenziavano come i fenomeni biologici e non, sono dei sistemi che rispondono ad una causalità circolare. Il sistema infatti è un insieme di elementi e dei loro attributi in relazione tra loro, in modo tale che l’insieme è più della somma delle parti  e che un cambiamento di un elemento determina il cambiamento dell’intero sistema (principio di totalità). Gregory Bateson, un antropologo, venne in contatto con il pensiero cibernetico negli anni Cinquanta e ne evidenziò la rilevanza negli studi delle interazioni umane. Egli giunse alla conclusione che l’individuo è un sistema aperto, quindi un sistema capace di autoregolazione e di scambi di informazioni con l’ambiente esterno: l’ambiente e l’individuo si sviluppano insieme influenzandosi reciprocamente. Pertanto è fondamentale, secondo questo approccio, studiare il sistema, ossia l’individuo, la coppia, la famiglia, il gruppo di lavoro, la classe in stretta relazione con l’ambiente in cui è inserito e quindi con gli altri sistemi con cui viene a contatto.

I primi modelli sistemici si sono fortemente concentrati sui concetti di autocorrezione e di omeostasi, ossia delle forme di retroazione negativa, che riporta il sistema al suo equilibrio iniziale, diminuendo il cambiamento, modelli fortemente influenzati dalle caratteristiche delle famiglie che venivano osservate. Infatti la Scuola di Palo Alto si formò per studiare la comunicazione, nelle famiglie, ma soprattutto nelle famiglie degli schizofrenici, ossia famiglie rigide, che tendono a mantenere lo stato di equilibrio e a neutralizzare ogni forma di cambiamento, la retroazione positiva, l’ingresso di informazioni che determinano un mutamento. Questi ricercatori misero in evidenza che il paziente è il paziente designato dalla famiglia per mantenere l’equilibrio, è la componente omeostatica, che permette a tutti i componenti del sistema familiare di mantenere i propri ruoli. A questo gruppo dobbiamo l’elaborazione della teoria del doppio legame. (qua metterei un link ad un altro documento)

Tale modello, nato negli Stati Uniti, si sviluppò in Europa negli anni Sessanta e Settanta, ma focalizzandosi sugli aspetti omeostatici, trascurava la dimensione del tempo, cioè la famiglia era considerata senza storia. Ci si limitava all’osservazione dell’<<hic et nunc>>, del qui e ora, delle dinamiche che è possibile osservare durante la seduta di terapia. Siamo all’interno della cosiddetta “prima cibernetica”. Secondo questa prospettiva il terapeuta ha il semplice ruolo di osservatore esterno delle dinamiche relazionali della famiglia. Negli anni Ottanta con Heinz von Foester viene introdotto il concetto di seconda cibernetica che mette inevidenza come il terapeuta è fortemente connesso al sistema familiare che va ad osservare, terapeuta e sistema familiare vanno a costituire il sistema terapeutico. Risulta quindi fondamentale tenere in considerazione i pregiudizi, i vissuti emotivi (le risonanze) del terapeuta che influenzano la descrizione che egli fa della famiglia. Da qui l’importanza della presenza di due terapeuti: uno osserva il sistema familiare, e, entrando in relazione con esso, va a costituire con esso il sistema terapeutico, che verrà osservato dal secondo terapeuta.

Nel corso degli studi sulla terapia familiare si evidenziò che i sistemi si evolvono: risulta quindi necessario il recupero delle storie familiari, per cogliere l’<<eredità>> che viene trasmessa alle generazioni successive e che rappresenta spesso sia l’origine della sofferenza psichica, sia i fondamenti della struttura familiare, che garantisce il senso di appartenenza, che stabilisce legami tra i membri della famiglia e permette loro di riconoscersi come parte della famiglia. Ferreira nel 1963 introdusse il concetto di “mito familiare”, cioè l’insieme delle credenze familiari, di rappresentazioni e valori familiari, che stabilisce i ruoli dei vari membri familiari. È il risultato di processi non razionali, ma percettivi, simbolici e interattivi, che si attualizzano attraverso la comunicazione ma non possono essere oggetto di comunicazione, non si può metacomunicare su di essi. Sono credenze che non vengono messe in discussione, né sottoposte a verifica (e l’esperienza esterna è adattata ad esse). Ferreira ha messo in evidenza la funzione omeostatica del mito, evidenziando che il mito ha queste finalità: ridurre al minimo i cambiamenti del sistema familiare; garantire il mantenimento degli equilibri raggiunti; impedire l’innesco di processi morfogenetici (cioè evolutivi, di cambiamento); garantire spiegazioni giustificatrici dell’esistente.

Bagarozzi e Anderson (1989) accolgono la definizione di mito di Ferreira, ma, sulla base di altri dati di ricerca ne sottolineano il carattere dinamico, la funzione che esercita nella costruzione dell’identità familiare, la funzione adattiva-evolutiva.

Onnis definisce il mito familiare come l’inconscio familiare, che consente di sviluppare nell’individuo il sentimento di appartenenza al nucleo familiare e il processo di differenziazione del singolo individuo.

Il mito si costruisce e ricostruisce nel presente, nella negoziazione interpersonale dei membri della famiglia, nelle routines familiari. È infatti sottoposto a periodiche revisioni e trasformazioni in risposta alla crescita e allo sviluppo non solo dei componenti della famiglia, ma anche in risposta al ciclo di vita familiare e agli eventi esterni.

All’interno di questa cornice teorica il terapeuta ha il compito di non fornire delle soluzioni al cambiamento, ma di sostenere la famiglia e l’individuo nella ricerca di soluzioni, proponendo letture della realtà e del problema alternative a quelle rigide, stereotipate e univoche che la famiglia e il soggetto propone. Il terapeuta si basa sugli elementi portati dai membri del nucleo familiare, sulle dinamiche relazionali che emergono, collegandoli con le loro vicende storiche, con i vissuti emotivi e soggettivi di ogni componente, ridefinendoli, ossia stabilendo tra di essi una relazione semantica differenti, con altre accezioni e altre funzioni.

Milena Martini e Claudio Sabatini

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